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L’immortalità dell’aragosta



Ci sono luoghi che rispondono a delle domande, altri invece che insistentemente obbligano a chiedere a se stessi, quanto agli altri, di cosa si è alla ricerca. Soffermarsi, inchinarsi, piegarsi, abbassarsi all’altezza del suolo per vedere meglio quanto può essere grande ciò che ci sta sopra la testa e per riscoprirsi piccoli abbastanza per avere il coraggio di chiedere ancora una volta. Salire sulla cima della montagna e credersi immortali e soprattutto più grandi di ciò da cui eravamo partiti.



Che si venga per un tempo piccolo o che si resti no a morirci in un posto, ci sono luoghi che obbligano ad arrendersi alla propria natura, a fermarsi o semplicemente a riscoprire quel respiro lento e deciso di chi vorrebbe avere più di due occhi e più di un cuore per contenere la meraviglia che lo circonda. Alla ne del viaggio, non importa la sua lunghezza, le risposte saranno sempre diverse, perché diverse sono le umane emozioni che sfuggendo agli umori del tempo si appiccicano a quegli istanti, fatti di gente e fatti di terra.



Di Stromboli ho chiesto il colore e mi sono ritrovata immersa nel bianco, non quello delle case ma quello degli uomini puri che tanti anni fa, e ancora oggi, lo scelgono per tingere la loro paura del buio. E il colore che colore non è, viene riempito di tutto e dell’insieme. Quando passata dal mare, ho toccato per la prima volta il nero di Stromboli, ho sentito la piccolezza del mio essere un essere umano, mentre nel frattempo tutti i pezzi di me sparsi e lasciati nel mondo si ritrovavano attratti dal magnetismo di un’isola contornata dal vulcano. Perché a Stromboli la montagna la trattiene, la fa sua rendendola evanescente e rarefatta con quella nube che rende umidi anche i pensieri. E in quel caso può anche accadere che se si viaggia per ringraziare, il vulcano diventi, al tempo stesso, fornace per gli umani pentimenti e altare di una pace che spesso si cerca viaggiando.





Sull’isola la montagna cola fino all’abisso mentre vengono dal mare, bianchi e barbuti, i pescatori che, come in una lenta e sacra processione, stanno in ossequioso silenzio, sbrogliando le reti e raccontando dell’immortalità dell’aragosta che così dif cilmente si arrende alla morte. È sotto quella schiuma di mare che gli pende dalla testa e dalla barba che ci si rende conto che a Stromboli, quando il tempo comincia a svilire il suo eterno vigore, sono due le verità che fanno sentire impotenti: quella del vulcano e quella della gente dalle radici così in super cie, come la vite che sull’isola ha questo difetto.

Nella velocità di nuvole che corrono sole, i gli della montagna, i gli di Iddu, lo Stromboli, restano lì ad ascoltarlo in silenzio aspettando quel caldo alito che annuncia Scirocco. Un vento cocente e avvolgente che abbraccia e stravolge col suo carico denso.Perché su un’isola contornata da cenere, gli sbruf su cui si cammina sono polvere che si alza dal centro della terra a ricordare che a Stromboli gli eventi che accadono sono troppo importanti e troppo grandi per esaurirsi ed avvenire in una volta soltanto. Per questo, quando si lascia la terra alla ne del viaggio, ci si trascina quel nero addosso per tutto il tempo che intercorre a un nuovo ritorno. Forse a una salvezza. E il mare diviene un semplice mezzo per raggiungere la più lontana delle sorelle, la più emblematica delle isole Eolie posta sul Tirreno da sempre considerato un mare avaro nel dare la vita.


Testo: Antonella Salamone / Fotografia: Olga Segura Andreu

Stromboli – 38° 47′ N / 15° 12′ E


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