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La sincronia lattea di Stromboli. Stefano e quel mare bianco di mezzo.



Il bianco prima non c’era come del resto non c’era l’uomo che lo ha fatto materia. A Stromboli tutto era nero, ma non stava bene, faceva paura perché ricordava la fine. Quindi la gente l’ha fatta bianca Stromboli e tutta morbida. Con quegli spigoli di panna montata che sembrano uscire fuori per accarezzare i passanti che su quei muri possono appoggiarsi a prenderlo tutto il sole che c’è. A Stromboli la gente sta con la testa in alto che tanto poi gli errori ci pensa il vulcano a coprirli e a nasconderli al tempo. Forse è per questo che la gente dell’isola è fiera come Stefano Oliva, stanco ma superbo nel suo essere un degno figlio del vulcano. Stefano, un puntino buttato lì per caso in mezzo a un mare, il Mediterraneo, da un Dio creatore che butta tutti sulla terra come punteggiatura impazzita e sfuggita in un momento della creazione che, andando all’impazzata, ha disseminato refusi nel creato e bellezze.




Forse è per questa sensazione di insieme e di caos, di prontezza alla vita, di ossequioso rispetto dei tempi di un’isola lentamente veloce che pare che la gente di Stromboli stia sempre in attesa e mai in partenza. Come Stefano che parla dopo aver guardato tutti profondamente un po’, con le sue ciglia lunghe, quelle rughe scolpite e quelle mani pronte a immaginare nuovi modi di abitare non schiacciando il passato, ma saltandoci su come si fa quando per attraversare un fiume, magari in un bosco, si saltella sulle pietre che sembrano insegnare un cammino. Perché il Mediterraneo non è solo un mare, ma è un viaggio, un modo di affrontare la vita, di pensarla e di abitarla. Un mare bianco di mezzo che diventa materia nell’incontro con la terra che circonda, attraversa e percorre. Uno stile che del rispetto delle necessità dell’uomo si è contraddistinto, nelle sue forme, nei suoi colori e in quella ricerca del lieve e del morbido che ha trovato la sua più profonda espressione in un’architettura votata al cielo, con costruzioni all’aperto che aspettano di essere possedute.



E se quelle curve delle strutture, quelle puliere orgogliose ma sfasate alla fine, quei cannizzi che si perdono nella natura circostante e quella sinuosità delle vie fosse soltanto la più pura manifestazione del carattere degli stromboliani? O se fosse semplicemente perché il cemento chiuso per ore nelle stive delle navi avesse gridato libertà una volta giunto sull’isola? Stefano non risponde a queste domande, le costruisce e le modella trasformandole in abitazioni fatte di calce, pietra morta e acqua e con gesti contemporanei ripercorre i tempi di tanti anni fa. Deve essere difficile occuparsi della creazione di spazi in uno spazio in cui la natura ha già quasi fatto tutto il lavoro che c’era da fare. In un vortice di clima e materiale, le case sono immerse nel bianco in cui il blu viene gettato quasi a rompere quella sincronia lattea che ancora profuma di racconti, leggende, sudore e cenere e di quel bambino che, anche se cresciuto, continua a correre per il declivio del vulcano con in mano un pezzo di sciara da cui scorrerà l’acqua di una doccia e pezzi di vita.



Testo: Antonella Salamone / Fotografia: Angelo Fruciano

Stromboli – 38° 47′ N / 15° 12′ E


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